Pediatra, dove stai andando? È indubbio che la medicina, negli ultimi 40 anni, ha beneficiato di un enorme volume di conoscenze.
Noi attualmente abbiamo le risorse tecniche per diagnosticare un numero impressionante di malattie, ma non siamo ancora capaci di curarne la maggior parte.
La struttura del “pensiero medico” si è modificato: possiamo facilmente accedere ad un computer dove, digitando un elenco di segni, sintomi, analisi di laboratorio e/o segni radiologici possiamo derivarne un elenco di potenziali diagnosi.
Considerando i progressi tecnologici, il futuro immediato e di medio termine ci costringe a riflettere sulla nostra pratica professionale.
Tale esercizio ci permette di prendere coscienza che la pratica medica non si limita alla mera attuazione di conoscenza biologica, cioè lo sviluppo del nostro “cervello scientifico”, che è ricchissimo di dati, spesso sottoutilizzati, fin dall’università e dall’inizio della nostra professione.
L’esperienza medica, quella a stretto contatto con i nostri pazienti e le famiglie che, fidandosi di noi, scelgono di affidare la salute dei loro figli, contribuisce allo sviluppo di un “cervello umanistico”.
Questi due cervelli sono complementari e richiedono un sostegno continuo e una critica analisi persistente.
Lo sviluppo di un cervello umanistico richiede una relazione vera con i nostri pazienti e con le loro famiglie.
Dovremmo quindi controllare il nostro umore e il nostro giudizio perché entrambi possono influenzare non solo il buon andamento della visita medica ma, talvolta, anche la nostra diagnosi.
Non dimentichiamo che ascoltando i genitori, stabilire un dialogo con i nostri pazienti e fare uno sforzo per capire i loro problemi e timori, la loro storia personale, spesso ci conducono ad una corretta diagnosi e comunque ci fornirà elementi indispensabili per costruire una “alleanza terapeutica”.
Ognuno di noi arriva alla visita medica con i propri valori, credenze e pregiudizi, che dovrebbero essere rispettati e non dovrebbero interferire con una relazione che vuole essere terapeutica, basata sulla soddisfazione di coloro che sono coinvolti nel dialogo ed evitare, pertanto, inutili conflitti.
Il primo passo in queste visite è rispondere alle domande che hanno condotto alla consultazione, e che non saranno sempre in linea con quello del medico.
Ad esempio, i genitori di un neonato sono preoccupati per i frequenti rigurgiti del loro bambino, ma se il pediatra riscontra la presenza di una massa addominale, deve riuscire a procedere ad ulteriori accertamenti non dimenticando mai che l’obiettivo principale è costruire una “alleanza terapeutica” con i piccoli pazienti e con le loro famiglie.
Le eventuali proposte di ricerca e l’eventuale trattamento dipendono dalla fiducia sviluppato tra i soggetti coinvolti.
Il rapporto umano è sempre stato il fondamento di una medicina clinica di successo e non potrà mai essere sostituito dalla tecnologia.
Anche se negli ultimi anni molti dei nostri colleghi hanno ridotto il tempo impiegato anche solo a parlare con i loro pazienti, per motivi finanziari o per l’aumento del numero di visite, dovremmo tornare ad apprezzare il valore dell’empatia come elemento fondamentale della nostra opera diagnostica-terapeutica.
Prendersi carico, accettare, condividere, accompagnare sono espressioni frequenti in ambito clinico; non dobbiamo dimenticare che, in tutti i casi, incarnano un atteggiamento nei confronti di una famiglia preoccupata o sofferente, che chiede il nostro consiglio con speranza, cercando comprensione, sollievo e, possibilmente, soluzioni.
Il rapporto medico-paziente e la sua famiglia attualmente si svolge in un contesto bioetico che si è sviluppato in linea con le nuove tecnologie.
I bambini e le loro famiglie devono essere considerati “membri della squadra”, condividendo scambi e partecipando, per quanto possibile, al processo decisionale; naturalmente, tale dialogo dovrebbe essere appropriato all’età del paziente, al livello di comprensione, e al suo sviluppo.
Questi principi rispettano la Dichiarazione dei diritti del fanciullo (Ginevra, 1923).
Molto spesso i bambini e gli adolescenti potranno spiazzarci con le loro domande, l’abilità di adattarsi alla malattia, al loro spirito collaborativo ed alla grande resilienza che mostrano nella relazione con i loro pediatri.
Stiamo vivendo un momento particolarmente difficile periodo in termini fisici, psicologici e salute sociale.
La pandemia ha trasformato la nostra vita e ha influenzato principalmente il modo in cui interagiamo tra noi. La distanza, nascondendo i nostri volti dietro una maschera, e parole che ora viaggiano attraverso mezzi tecnologici, inclusi schermi, hanno profondamente trasformato la nostra comunicazione e le possibilità di avvicinarsi.
La Telemedicina, il cui uso è aumentato nella situazione attuale, anche se pratico, non sostituirà mai un incontro in presenza.
Poiché la comunicazione può essere verbale e non verbale non è lo stesso parlare in un corridoio affollato o in uno studio triste e disadorno.
La comunicazione sarà differente se si è in ospedale, in clinica, in uno studio ambulatoriale o a casa del paziente.
In ospedale, la comunicazione con il pediatra dipenderà dal luogo dell’incontro, se è un reparto di degenza o una stanza privata.
Quindi anche lo spazio clinico ha le sue valenze, che possono contribuire a una migliore comunicazione.
È quindi importante scegliere il luogo dove il pediatra incontrerà un bambino o adolescente e la sua famiglia.
Non dimentichiamo che il pediatra non potrà ricoprire il ruolo di coetanei dei propri pazienti e che non potrà neanche essere il genitore, ma potrà offrire un enorme contributo al loro benessere e migliorare la loro qualità di vita attraverso l’empatia, la comprensione e il dialogo.
In conclusione il cervello umanistico non smetterà mai di migliorare grazie agli incontri in presenza con i pazienti e le loro famiglie, grazie alla lettura, all’arte e alla vita, e non sarà mai sostituito dalla tecnologia.
Ad Emma, bambina fortissima.